Cop21 con un occhio attento anche all'agricoltura bio
Basandosi su una ragionevole ipotesi di un riscaldamento di 3 °C entro la fine del secolo, il Climate Institute australiano prevede un calo del 90% delle possibilità di irrigazione nel bacino di Murray-Darling, il granaio del paese.

Lunedì 30 novembre si è aperta a Parigi la Cop21, conferenza mondiale sul clima, che durerà per una decina di giorni. Al contempo responsabile e fonte di soluzioni, l'agricoltura dovrà piegarsi rapidamente, ovunque nel mondo, ai vincoli più o meno noti, imposti dall'indispensabile controllo della temperatura del pianeta.
Da molti anni gli esperti sono unanimi nel sostenere che le avversità climatiche estreme, più frequenti, avranno un impatto negativo sui rendimenti agricoli. Criticata per il suo debole impegno nella riduzione delle emissioni di gas a effetto serra (Ges), l'Australia, ad esempio, 4° esportatore mondiale di cereali, rischia di essere molto penalizzata.
Basandosi su una ragionevole ipotesi di un riscaldamento di 3 °C entro la fine del secolo, il Climate Institute australiano prevede un calo del 90% delle possibilità di irrigazione nel bacino di Murray-Darling, il granaio del paese.
Mentre il tempo a disposizione per impegnarsi a limitare l'aumento delle temperature sta per scadere, il fenomeno climatico El Nino e' di ritorno dopo qualche anno di assenza. Aggrava, a ragione, i timori per il potenziale agricolo australiano. "La siccità ha già comportato un aumento dei prezzi del riso, del grano e del mais. Se non si interviene, l'Australia potrebbe diventare entro il 2050 un importatore di grano", constata Corey Watts, responsabile del Climate Institute per la regione di Melbourne.
Se le conseguenze del riscaldamento climatico sono gia' percepibili in un paese come l'Australia, e' nelle regioni più povere, in particolare in Africa, che saranno probabilmente più forti. Il reddito del 60% della popolazione africana dipende dall'agricoltura. Il susseguirsi delle siccita' e la minore disponibilità di acqua indeboliranno inevitabilmente la capacità del continente di nutrire i propri abitanti.
Secondo l'Ipcc [Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico, NdT], "il futuro cambiamento climatico avrà sicuramente incidenze negative sul rendimento della maggior parte dei cereali coltivati in Africa, con una variabilità regionale molto importante". "Viene spesso citata dagli esperti una diminuzione dell'8% dei rendimenti cerealicoli medi nel 2050", aggiunge la fondazione Farm.
In Africa occidentale il calo potrebbe raggiungere il 25% per il mais e il miglio e fino al 50% per il sorgo! Questi cali di rendimento potrebbero inoltre generare una diminuzione delle produzioni animali delle stesse proporzioni. Vista la forte crescita demografica prevista per il 2050, la dipendenza alimentare del continente si rafforzerà fortemente. Per attenuare questi effetti, l'aumento dei rendimenti è una priorità.
La fondazione Farm ricorda inoltre che delle progressioni superiori al 2% annuo sono possibili, come in Europa occidentale e nel Sud-Est Asiatico dagli anni '60 agli anni '80. Come? Grazie a dei margini di progresso enormi a tutti i livelli: l'aumento della fertilità dei terreni, l'utilizzo di sementi migliorate o l'adozione di metodi di coltivazioni più intensivi.
Tuttavia l'accesso agli input agricoli rimane senza dubbio l'opzione più efficace per la situazione di emergenza che vive l'Africa. Per accrescere la produttività della terra, gli attori agricoli dovranno inoltre colmare parzialmente il ritardo accumulato nelle infrastrutture d'irrigazione.
La migliore produttività delle parcelle agricole non e' l'unica chiave. Se la lotta contro lo spreco alimentare si avvera essere, in Francia e nei paesi sviluppati, una delle risposte alla sfida climatica, lo è ancor più in Africa!
Il continente concentrerebbe il 23% delle perdite mondiali di calorie alimentari vegetali, mentre rappresenta solamente il 13% del loro consumo. Dimezzare le perdita post-raccolto aumenterebbe del 24% la disponibilità giornaliera di calorie per gli africani.
Anche nell'emisfero Nord, negli Stati Uniti, l'agricoltura rischia di soffrire sensibilmente per l'aumento delle temperature. Entro il 2050, "potrebbero esserci, ogni anno, 52 giorni supplementari di 'forte calore', vale a dire al di sopra dei 35 °C", spiegano diversi studi americani. "Vale a dire dal doppio al triplo della media degli ultimi 30 anni". Abbastanza da penalizzare i rendimenti della Corn Belt.
Il susseguirsi delle siccità ha fatto reagire le autorità. Affinché' il settore agricolo si adatti, tra l'altro, al cambiamento climatico, Barack Obama ha lanciato ad inizio 2015 un piano di un miliardo di dollari. L'USDA (dipartimento americano dell'agricoltura) si appoggerà a dei centri regionali sul clima per "tradurre la scienza e la ricerca in informazioni per gli agricoltori e i silvicoltori, permettendo loro di adeguare di conseguenza le loro attività". L'obiettivo: definire sul campo otto aree di intervento. Le piste privilegiate sono identiche a quelle individuate in Francia. Si tratta in particolare di sviluppare la metanizzazione degli allevamenti e "di migliorare la salute dei terreni".
Per sequestrare più carbonio, l'USDA prevede in particolare di estendere i terreni non coltivabili a 40 milioni di ettari entro il 2025. Sequestrare il carbonio in maniera più efficiente appare d'altronde come la principale soluzione affinché' l'agricoltura contribuisca alla lotta al riscaldamento.
A livello mondiale, vi è 2,6 volte meno carbonio nel suolo che nell'atmosfera. E il potenziale di sequestro di carbonio delle terre agricole da qui al 2030 è stimato a 2,9 giga tonnellate di CO2 l'anno, vale a dire una compensazione del 10% delle nostre attuali emissioni.
Da molti mesi in Italia, nell'ambito della Cop21 e della "agenda delle soluzioni" i Ministri dell'agricoltura e dell'ambiente affrontano il tema con la Carta di Milano "made in Expo" e i suoi contenuti d'innovazione. Nel frattempo su proposta del Movimento 5stelle, si è pensato alla creazione di un Osservatorio su agricoltura e cambiamenti climatici, che dovrebbe monitorare la situazione italiana. Ma prima ancora di fare ciò bisognerebbe concludere il percorso della legge sul consumo di suolo, forse così avremo un minimo di speranza per recuperare un po' di ossigeno.