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di Piera de Sensi
di Piera de Sensi
IL FILOSOFO CHE SUSSURRA AI CAVALLI
di Piera de Sensi
Viaggio nella storia del rapporto tra uomo e cavallo
e di come sia cambiato nel corso dei secoli
2 luglio 2001
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- Negli ultimi giorni del rovente giugno 2001, giornali e telegiornali hanno fatto un gran parlare del famoso filosofo spagnolo Fernando Savater, da cui tutto ci si poteva aspettare tranne che scrivesse un libro intitolato “A cavallo tra due millenni”, in cui parla di purosangue, gare e ippodromi come metafora della civiltà.
Nel precedente mese di maggio era stato ripubblicato “La carriera di Pimlico” di Manlio Cancogni, uno dei racconti più belli nella storia della letteratura italiana, apparso per la prima volta nel 1956. “Pimlico” è un cavallo che non diventerà mai un campione, e Cancogni gli ha dedicato parole indimenticabili: “Gli occhi delle bestie non ridono mai: di solito pare che riflettano una coscienza così profonda della vita che al confronto anche gli occhi dell’uomo più intelligente sembrano superficiali e sciocchi. Quando un animale ti avvicina il muso e ti rimane accanto silenzioso, pare di sentire il sangue che scorre tiepido nel suo corpo. E qualcosa di quella vita ti entra nell’anima, la senti passare nel cuore, nei pensieri.”
Certo, non è una novità che di libri dedicati ai cavalli ce ne siano tanti, e a spulciare nei cataloghi specializzati se ne trovano a centinaia. Tuttavia, l’attenzione di un filosofo così celebrato e la riedizione di un successo letterario di colui che viene considerato il più grande scrittore italiano vivente, dimostrano che c’è un autorevole revival di attenzione intorno al mondo dell’equitazione. Tanto da sollecitare una rispolveratina alla storia di quella che i dizionari definiscono “arte e pratica del cavalcare”. E’ una storia infinita, che testimonia in quasi tutti i suoi capitoli l’aspetto più nobile del rapporto tra uomo e cavallo, in cui l’animale è considerato compagno dell’uomo e non suo servitore, e la sopravvivenza dell’uno spesso dipende dall’abilità dell’altro.
Se i primi cavalieri degni di questo nome furono i Persiani, sembra dimostrato che, tanto per cambiare, i Greci furono i primi a interessarsi seriamente al modo di montare e addestrare i cavalli. Senofonte, che era anche ufficiale dell’esercito ateniese nelle fila dei cavalieri, codificò nel 365 a.C. una serie di principi ancora validi ai giorni nostri. Tuttavia i Greci non conoscevano l’uso della sella, che fu introdotta successivamente dai soldati nubiani dell’alto Nilo. Le staffe furono inventate molto più tardi, nel quarto secolo dopo Cristo, per merito degli Unni della Mongolia. Così, anche coloro che non erano allenati alla guerra, cominciarono a cavalcare per adempiere alle necessità quotidiane, per andare a caccia o per viaggiare.
L’era dello sport equestre inizia nel primo secolo dopo Cristo, con le corse dei cocchi. Probabilmente si è trattato del primo vero spettacolo di sport legato ai cavalli, prescindendo dal polo, che si giocava in India già da tempo, e che venne poi introdotto in Europa dai colonizzatori inglesi.
La grande stagione di gare e tornei equestri “cavallereschi” si apre solo a partire dall’anno Mille. Gli ardimentosi cavalieri concorrenti, il cui sovraccarico di armature e bardature sfiorava i duecento chili, dovevano essere sollevati con le carrucole, e una volta issati in sella dovevano lanciarsi l’un contro l’altro cercando di disarcionare l’avversario. Con grande sollievo del cavallo che per primo riusciva a liberarsi della montagna che si portava addosso.
Da allora si cominciò a considerare l’equitazione un’arte che, come tale, avrebbe annoverato i suoi maestri. Il più famoso in Europa fu Francois de la Pluvinière, autore all’inizio del 1700 dei principi dell’equitazione accademica, su cui si fondarono le due massime scuole europee: la Scuola di Cavalleria di Saumur in Francia e la Scuola Spagnola di Vienna. Fino all’inizio del ventesimo secolo, le norme basilari dell’equitazione furono tramandate dai militari e da queste stesse scuole, cui possiamo degnamente aggiungere Pinerolo.
Le vere e proprie corse dei cavalli in percorsi antesignani dei moderni ippodromi, diventarono uno sport popolare in Inghilterra circa quattro secoli fa, sotto i Tudor. Ma anche in Italia si svolgevano tipiche corse equestri sin dai tempi antichi. Basti ricordare il Palio di Siena, che si svolge con regolarità dal 1656, ma che risale al tredicesimo secolo. In epoche più recenti è cominciato il mito di ippodromi quali Ascot, Longchamp, San Siro e tanti altri, che hanno incoronato leggendari campioni. Scavando nella storia, si scopre che anche i cavalli dell’antichità non si sottrassero allo “star system”, come è accaduto in tempi più recenti a un Ribot o a un Varenne. Il primo cavallo famoso fu quello di Alessandro Magno, Bucefalo, che si lasciava montare solo dal padrone. Quando l’animale morì, l’inconsolabile Alessandro fece costruire la città di Bucefala attorno alla sua tomba. Il cavallo di Napoleone, Marengo, era un purosangue arabo, piccolo, grigio e di ottimo carattere che, nonostante la pessima reputazione dell’imperatore come cavaliere, riuscì sempre a schivare ogni sorta di incidente. A un sauro di nome Copenhagen toccò l’onore di essere montato dal Duca di Wellington durante la battaglia di Waterloo, e di essere poi amorosamente coccolato dal Duca per il resto della sua vita.
Tuttavia, la storia tra uomo e cavallo ha conosciuto anche momenti molto duri. Quando nel diciannovesimo secolo gli umani sentirono la necessità di spostarsi sempre più rapidamente, alla figura del cavallo status-symbol si affiancò drammaticamente quella del cavallo-operaio. Per rispettare certi orari impossibili, i cavalli di posta erano spesso spinti fino ai limiti della equestre sopportazione. Non migliore era la sorte dei cavalli da carrozza, a meno di non essere al servizio delle classi nobili e agiate. In questo caso erano ben nutriti e spesso alloggiavano in stalle comode e quasi lussuose. Eppure, anche essi finivano la loro carriera tirando faticosamente qualche diligenza.
Si sa, le tradizioni equestri vennero conservate attraverso i secoli per merito dei militari e dei nobili. Diventare ufficiale di cavalleria era un imperativo categorico per i rampolli di illustri famiglie, ai quali non pareva vero di far proprio il celebre motto: “Soit à pied soit à cheval, notre honneur est sans égal” (Sia a piedi, sia a cavallo il nostro onore è senza uguali). Tanto che il termine “cavalleria” è diventato incontestabile sinonimo di dignità, decoro, educazione. Ancora maggior fortuna è toccata, ai giorni nostri, al termine “cavaliere”. Invece, va a fasi alterne la sorte delle similitudini. Sentirsi dire che si ha la faccia da cavallo o le gambe da fantino non è mai stato un complimento.
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- Negli ultimi giorni del rovente giugno 2001, giornali e telegiornali hanno fatto un gran parlare del famoso filosofo spagnolo Fernando Savater, da cui tutto ci si poteva aspettare tranne che scrivesse un libro intitolato “A cavallo tra due millenni”, in cui parla di purosangue, gare e ippodromi come metafora della civiltà.
Nel precedente mese di maggio era stato ripubblicato “La carriera di Pimlico” di Manlio Cancogni, uno dei racconti più belli nella storia della letteratura italiana, apparso per la prima volta nel 1956. “Pimlico” è un cavallo che non diventerà mai un campione, e Cancogni gli ha dedicato parole indimenticabili: “Gli occhi delle bestie non ridono mai: di solito pare che riflettano una coscienza così profonda della vita che al confronto anche gli occhi dell’uomo più intelligente sembrano superficiali e sciocchi. Quando un animale ti avvicina il muso e ti rimane accanto silenzioso, pare di sentire il sangue che scorre tiepido nel suo corpo. E qualcosa di quella vita ti entra nell’anima, la senti passare nel cuore, nei pensieri.”
Certo, non è una novità che di libri dedicati ai cavalli ce ne siano tanti, e a spulciare nei cataloghi specializzati se ne trovano a centinaia. Tuttavia, l’attenzione di un filosofo così celebrato e la riedizione di un successo letterario di colui che viene considerato il più grande scrittore italiano vivente, dimostrano che c’è un autorevole revival di attenzione intorno al mondo dell’equitazione. Tanto da sollecitare una rispolveratina alla storia di quella che i dizionari definiscono “arte e pratica del cavalcare”. E’ una storia infinita, che testimonia in quasi tutti i suoi capitoli l’aspetto più nobile del rapporto tra uomo e cavallo, in cui l’animale è considerato compagno dell’uomo e non suo servitore, e la sopravvivenza dell’uno spesso dipende dall’abilità dell’altro.
Se i primi cavalieri degni di questo nome furono i Persiani, sembra dimostrato che, tanto per cambiare, i Greci furono i primi a interessarsi seriamente al modo di montare e addestrare i cavalli. Senofonte, che era anche ufficiale dell’esercito ateniese nelle fila dei cavalieri, codificò nel 365 a.C. una serie di principi ancora validi ai giorni nostri. Tuttavia i Greci non conoscevano l’uso della sella, che fu introdotta successivamente dai soldati nubiani dell’alto Nilo. Le staffe furono inventate molto più tardi, nel quarto secolo dopo Cristo, per merito degli Unni della Mongolia. Così, anche coloro che non erano allenati alla guerra, cominciarono a cavalcare per adempiere alle necessità quotidiane, per andare a caccia o per viaggiare.
L’era dello sport equestre inizia nel primo secolo dopo Cristo, con le corse dei cocchi. Probabilmente si è trattato del primo vero spettacolo di sport legato ai cavalli, prescindendo dal polo, che si giocava in India già da tempo, e che venne poi introdotto in Europa dai colonizzatori inglesi.
La grande stagione di gare e tornei equestri “cavallereschi” si apre solo a partire dall’anno Mille. Gli ardimentosi cavalieri concorrenti, il cui sovraccarico di armature e bardature sfiorava i duecento chili, dovevano essere sollevati con le carrucole, e una volta issati in sella dovevano lanciarsi l’un contro l’altro cercando di disarcionare l’avversario. Con grande sollievo del cavallo che per primo riusciva a liberarsi della montagna che si portava addosso.
Da allora si cominciò a considerare l’equitazione un’arte che, come tale, avrebbe annoverato i suoi maestri. Il più famoso in Europa fu Francois de la Pluvinière, autore all’inizio del 1700 dei principi dell’equitazione accademica, su cui si fondarono le due massime scuole europee: la Scuola di Cavalleria di Saumur in Francia e la Scuola Spagnola di Vienna. Fino all’inizio del ventesimo secolo, le norme basilari dell’equitazione furono tramandate dai militari e da queste stesse scuole, cui possiamo degnamente aggiungere Pinerolo.
Le vere e proprie corse dei cavalli in percorsi antesignani dei moderni ippodromi, diventarono uno sport popolare in Inghilterra circa quattro secoli fa, sotto i Tudor. Ma anche in Italia si svolgevano tipiche corse equestri sin dai tempi antichi. Basti ricordare il Palio di Siena, che si svolge con regolarità dal 1656, ma che risale al tredicesimo secolo. In epoche più recenti è cominciato il mito di ippodromi quali Ascot, Longchamp, San Siro e tanti altri, che hanno incoronato leggendari campioni. Scavando nella storia, si scopre che anche i cavalli dell’antichità non si sottrassero allo “star system”, come è accaduto in tempi più recenti a un Ribot o a un Varenne. Il primo cavallo famoso fu quello di Alessandro Magno, Bucefalo, che si lasciava montare solo dal padrone. Quando l’animale morì, l’inconsolabile Alessandro fece costruire la città di Bucefala attorno alla sua tomba. Il cavallo di Napoleone, Marengo, era un purosangue arabo, piccolo, grigio e di ottimo carattere che, nonostante la pessima reputazione dell’imperatore come cavaliere, riuscì sempre a schivare ogni sorta di incidente. A un sauro di nome Copenhagen toccò l’onore di essere montato dal Duca di Wellington durante la battaglia di Waterloo, e di essere poi amorosamente coccolato dal Duca per il resto della sua vita.
Tuttavia, la storia tra uomo e cavallo ha conosciuto anche momenti molto duri. Quando nel diciannovesimo secolo gli umani sentirono la necessità di spostarsi sempre più rapidamente, alla figura del cavallo status-symbol si affiancò drammaticamente quella del cavallo-operaio. Per rispettare certi orari impossibili, i cavalli di posta erano spesso spinti fino ai limiti della equestre sopportazione. Non migliore era la sorte dei cavalli da carrozza, a meno di non essere al servizio delle classi nobili e agiate. In questo caso erano ben nutriti e spesso alloggiavano in stalle comode e quasi lussuose. Eppure, anche essi finivano la loro carriera tirando faticosamente qualche diligenza.
Si sa, le tradizioni equestri vennero conservate attraverso i secoli per merito dei militari e dei nobili. Diventare ufficiale di cavalleria era un imperativo categorico per i rampolli di illustri famiglie, ai quali non pareva vero di far proprio il celebre motto: “Soit à pied soit à cheval, notre honneur est sans égal” (Sia a piedi, sia a cavallo il nostro onore è senza uguali). Tanto che il termine “cavalleria” è diventato incontestabile sinonimo di dignità, decoro, educazione. Ancora maggior fortuna è toccata, ai giorni nostri, al termine “cavaliere”. Invece, va a fasi alterne la sorte delle similitudini. Sentirsi dire che si ha la faccia da cavallo o le gambe da fantino non è mai stato un complimento.